Stiamo pranzando all’albergo quando arriva il comunicato sulle condizioni meteo sopra la base di McMurdo dall’aviazione statunitense; la perturbazione sembra concederci una finestra priva di nuvole per qualche ora. Il rischio persiste ma dobbiamo tentare, si parte. Ci vestiamo con l’abbigliamento antartico, come richiede il protocollo di volo. Piedi e mani sono i punti più sensibili al freddo perciò indossiamo scarponi canadesi progettati per -40°C, portiamo con noi sottoguanti, guanti, berretta di lana e cappello, il tutto ovviamente in rosso, il colore che si distingue meglio sul ghiaccio. Di nuovo ci troviamo faccia a faccia con il militare neozelandese del precedente tentativo che questa volta, però, non ci ferma. Siamo trasportati su un vecchio pullman all’interno dell’aeroporto e poi su un airbus del tutto simile a quelli civili. Alle 21 decolliamo. Il volo durerà circa 6 ore. Ognuno cerca un modo per passare il tempo o magari per scacciare il pensiero che ancora una volta, giunti a metà strada, potremmo essere costretti a tornare in Nuova Zelanda.
Mi rilasso leggendo i diari di Scott, della prima fallimentare spedizione “Discovery” (1902-1903) verso il Polo. Partirono da Baia Terranova, la nostra destinazione. Mi addormento pensando che forse tra non molto vedrò io stesso quei luoghi. Mi sveglia la voce del pilota: “alle vostra sinistra potete ammirare il pack” dice. Mi affaccio al finestrino e sono accecato dalla luce. Siamo partiti che il sole era tramontato ma lo abbiamo “inseguito” ed ora, in piena notte è lì, alto in cielo, e si riflette sulla superficie di un infinito oceano di ghiaccio. Lo spettacolo è di quelli che tolgono il fiato. Scattando qualche foto mi accorgo che non è come lo immaginavo. La superficie ghiacciata non è piatta bensì percorsa da ondulazioni e increspature ampie chilometri che creano ombre lunghissime e strabilianti. Il pack è a volte interrotto da spaccature; dritte linee blu separano enormi iceberg piatti come in un quadro astratto. Presto iniziano a intravedersi le prime montagne ricoperte di neve, ghiacciai riempiono le valli e raramente riconosco piccoli lembi di roccia.
E’ impossibile rendersi conto delle distanze o delle dimensioni: piccole cime potrebbero essere alte 3000 metri e quello che sembra un normale ghiacciaio, essere largo 50 chilometri. La mente mi porta a immaginare che ciò che vedo doveva assomigliare all’aspetto delle nostre Alpi durante l’ultima glaciazione. Dal finestrino riconosco il Monte Melbourne, un vulcano attivo alto 2700 metri che sovrasta Baia Terranova. Cerco di riconoscere la base italiana; chiedo a chi è più esperto ma mi dicono essere coperta dalle nubi.
Rimango però esterrefatto alla vista dell’imponente fronte del ghiacciaio Drygalsky che si getta nel mare poco a Sud di Hells Gate, una baia denominata così da R. Scott per via dei forti venti che vi si incanalano. In breve tempo l’aereo comincia la sua discesa verso la base di McMurdo. Quello della base americana è un vero e proprio aeroporto che rispetta tutte le norme internazionali dell’aviazione civile ma, invece di essere in asfalto, la pista è ricavata sulla superficie ghiacciata della Ross Shelf, un’aerea enorme costituita da una serie di ghiacciai terrestri che confluiscono in mare. Grazie a ciò gli americani sono in grado di mantenere una pista per tutto l’anno mentre quella italiana, costruita sul pack, in estate diventa inutilizzabile.
L’aereo atterra alzando una nuvola di neve e scendiamo a uno a uno dalla scaletta. E’ un momento indimenticabile, metto il piede sul ghiaccio, una folata di vento ci colpisce il volto e respiriamo a pieni polmoni l’aria a -20°C; ci sovrasta con i suoi 3300 metri di altezza il Monte Erebus. Siamo ordinatamente stipati in un container riscaldato in attesa dei voli verso la base italiana. Sono fortunato, parto quasi subito insieme ai dieci francesi su un twin otter; il piccolo aereo ha due motori a elica e prende agilmente la via della pista, scivolando con i pattini sulla superficie ghiacciata. In un’ora e mezza siamo a Baia Terranova, nel frattempo il cielo si è riempito di nubi, per fortuna alla base Mario Zucchelli c’è un bellissimo sole. Il twin otter atterra sul mare ghiacciato della Tethis Bay. Ad attenderlo una cisterna per il carburante e il gruppo che deve prenderlo per andare a McMurdo e imbarcarsi per fare il viaggio inverso e tornare finalmente a casa.
Molti sono veterani, chi si conosce si abbraccia mentre i nuovi sono accolti calorosamente con una forte stretta di mano ed un sorriso. Saliamo su una jeep e in pochi minuti arriviamo alla base passando per le cisterne del carburante avio, davanti ai magazzini e infine all’edificio principale dove si trova la sala operativa, i moduli abitativi e quelli con i laboratori e gli uffici. Sono le 4 del mattino, tutti dormono, il sole è caldo, qui il clima è molto più mite rispetto che alla base americana. Entrati in base ci danno delle comode pantofole e ci portano ai rispettivi alloggi, poggio la borsa e seguo un irresistibile odore di cornetti fino alla mensa, dove il cuoco napoletano è intento a preparare la colazione. Ci rilassiamo, anche i francesi sono stupiti dall’ospitalità: qui, nel luogo più inospitale della Terra, esiste un lembo di Bel Paese. La stanchezza prende il sopravvento, mi corico in branda, non mi sembra vero, sono in Antartide. E l’avventura deve ancora incominciare …
Articolo gentilmente concesso dalla testata giornalistica MP Newsche pubblicherà, nel corso di tutta la Missione, un Reportage sull’Antartide a firma di Pier Paolo Giacomoni.