Ferrara Buskers Festival 2013

Anche quest’anno è appena concluso il Ferrara Busker Festival arrivato alla 26° edizione. Il Festival è una delle maggiori manifestazioni al mondo dedicata alla musica e agli artisti di strada. Nata nel 1988, la manifestazione ha lo scopo di valorizzare la figura del “busker” le cui esibizioni limitate da leggi sempre più restrittive in tutto il mondo.

Il Busker Festival è anche una bellissima occasione per fotografare gli artisti e la città con un’atmosfera certamente insolita. La modesta, calma e borghese Ferrara si anima per due week end di luci, colori, suoni e persone cariche di energia. Anche se gli artisti iniziano ad esibirsi nel pomeriggio, è al calare del sole che la manifestazione dà il meglio di se. Ciò comporta che fotografare non è per nulla semplice perché l’illuminazione è spesso scarsa e dominata da una luce giallognola che diventa arancione sui mattoni ferraresi. Ho scelto comunque il colore per questa serie di scatti, cercando di avvicinarmi il più possibile agli artisti con 20 2.8 o con il 50 1.4. Per mantenere dei tempi di scatto abbastanza rapidi ho quasi sempre scattato a ISO variabili da 1600 a 2000, intimidito dall’alzarli ulteriormente, in realtà avrei potuto senza che il risultato ne risentisse.

Così ci si trova immersi nella folla, ai piedi di un campanile rinascimentale, cercando di capire da dove proviene il suono di un pianoforte! E’ quello del “Piano fuori posto” che ogni sera suona in un angolino diverso della città, contribuendo a creare atmosfere emozionanti.

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Non ci sono solo i musicisti anche pittori.

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La pizzica infiamma la piazzetta di fronte al Cinema Apollo!

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Emozioni superficiali

EMOZIONI SUPERFICIALI

Da troppo tempo non scrivo un post. Tornato dalla straordinaria esperienza antartica, fotografare il quotidiano è risultato estremamente difficile. In realtà, riprendere la routine giornaliera è stato terribilmente complicato e l’apatia derivante dalla mancanza della quotidiana dose di adrenalina si è riversata anche sulla passione per la fotografia.

Per questo motivo, nonostante i ripetuti tentativi di uscite fotografiche e l’acquisto di un luminoso Nikkor 20 2.8 usato, nessuno dei risultati ottenuti meritava, a parer mio, la pubblicazione di un post. Qualcosa tuttavia è cambiato recentemente mentre facevo ordine nel mio hard disk ad altissima entropia! Mi sono tornate in mente le parole di un amico conosciuto in Islanda, che diceva di trovar estremamente attraenti (fotograficamente parlando) le rughe della pelle di un elefante, simili alle crepe nel fango della secca terra d’Africa. Così ho ripensato alcune vecchie fotografie come la rappresentazione di semplici superfici di colore, di luce ed ombra. La natura, così come gli spazi urbani ci possono regalare emozionanti similitudini che possono essere esaltate dalla bidimensionalità…il tutto senza cercare di essere troppo superficiali!

Nubi all’orizzonte e primi freddi

I giorni trascorrono senza sosta, usciamo in elicottero altre quattro volte, impegnati in zone sempre più distanti dalla base. Ci svegliamo, facciamo colazione in mensa dove il cuoco Pippo, di origini napoletane, ci accoglie sempre con una colonna sonora allegra e adatta al risveglio; oggi sono gli Abba ad accompagnarci. Pippo è fantastico, prepara con il collega Emanuele il pane fresco e la pizza tutte le mattine oltre ovviamente a torte e cornetti alla crema. Il programma del giorno prevede un volo verso il vulcano Overlord e la zona di Aviator Nunatak. I siti distano 130 km circa dalla base ed il nostro pilota sarà Bob. Voliamo per circa un ora in direzione nord-ovest, il viaggio è lungo così decido di fare un po’ di conversazione con il nostro pilota. Bob è neozelandese del nord e vola da 15 anni in Antartide, ha lavorato alla base di McMurdo con gli americani, a Scott dai neozeladesi e Domont Durville con i francesi. Ma il posto che ama di più è la base italiana di Baia Terranova. Ci avviciniamo all’Overlord, un vulcano di oltre 3000 metri ormai spento. Vogliamo raccogliere dei campioni di roccia da un cono nero che affiora dalla neve, lo indichiamo a Bob ma lui ci dice che è troppo in alto, l’aria è rarefatta e l’elicottero arranca. Riesce comunque a salire e scaricarci sul punto, ma ci dice che ci attenderà più in basso, lo chiameremo sul canale 1 quando saremo pronti a ripartire. Scaricati gli zaini e la borsa di sopravvivenza ci accucciamo coprendoci il volto mentre il velivolo decolla sollevando una nuvola di neve ghiacciata dall’aspetto polveroso. Poi cala il silenzio, siamo soli e ci accorgiamo in pochi istanti che qui fa un gran freddo! Il termometro dice -25°C e la leggera brezza che ci colpisce al volto non migliora le cose. Camminiamo sul sito per una mezz’oretta, raccogliendo campioni. Tornato a prenderci indichiamo a Bob la prossima meta: una cresta nera che si staglia ripida sul fianco settentrionale dell’Aviator Nunatak. Questi è di una bellezza commovente, sembra una barca di roccia antichissima che naviga al centro dell’immenso ghiacciaio Aviator. Vorremmo atterrare in un punto ma mi sembra stretto, lo dico a Bob ma lui, con un sorriso sardonico e l’immancabile accento kiwi mi risponde: ”tell me where you want to go and I’ll land there”. Avvicina la cresta di roccia controvento e con delicatezza appoggia i pattini in una zona non più ampia di 3-4 metri quadri. Se guardo dai finestrini posti sotto i miei piedi vedo il baratro…Come fatto precedentemente scendiamo e l’elicottero se ne va per aspettarci in una zona meno “precaria”.
Terminato di raccogliere le rocce pranziamo con Bob consumando il sacchetto che ci ha preparato il cuoco Pippo. L’acqua ed il succo di frutta si sono congelati, ma i panini sono commestibili! Chiacchiero ancora con Bob, mi dice che ha imparato a volare a 18 anni, nell’aviazione neozelandese e che è preoccupato perchè dove vive è in corso una brutta alluvione e lo Stato ha dichiarato la calamità naturale. Poi ci chiede cosa stiamo cercando. Gli spieghiamo che cerchiamo delle rocce laviche che contengono dei minerali verdi chiamati “olivine”. Lui mi risponde: “Ok, I know a place!”. Non ci credo, la giornata era stata proficua ma non avevamo trovato ciò che cercavamo. Bob ci porta dove di solito si rifornisce da alcuni barili di carburante semi sepolti nella neve sul bordo della parete degli Eldridge Bluff. Ed eccole lì le nostre rocce! Ripenso agli insegnamenti del Prof. Neri il prima anno di Università. Con il suo accento bolognese ci diceva che se ci trovavamo in un posto poco conosciuto dovevamo parlare prima di tutto con le persone del luogo, contadini, allevatori ecc…Anche se non sono scienziati conoscono il territorio, lo osservano attentamente e ne percepiscono i cambiamenti. Bob non è uno scienziato e nemmeno un agricoltore, ma vola in Antartide da 15 anni e conosce come le sue tasche questo pezzo di mondo!
Ripartiamo per rientrare alla base, ormai galvanizzato dall’aver trovato persone che parlano con lui e lo coinvolgono, anche Bob vuole trasmetterci un po’ delle sue conoscenze e inizia a spiegarci tutti i comandi dell’elicottero. Rimango meravigliato dalla sua lezione, l’elicottero è davvero una macchina meravigliosa e nelle sue mani, pilotarlo sembra uno gioco. Ascolto Bob lusingato che con tanta gentilezza ci illustri l’effetto che fa la spinta sui pedali, il movimento della cloche o l’agire sulla leva del collettore.
Ma appena ci alziamo in volo Bob si fa serio. Le nubi si stanno chiudendo intorno a noi, arrivano veloci da ovest e ormai toccano le cime delle montagne. Se non fosse per una leggera striscia di cielo azzurro saremmo nel “white out”, la totale assenza di punti di riferimento e della percezione dell’orizzonte. Bob chiama Giles sull’altro elicottero, questi lo tranquillizza rassicurandolo che le nubi sono basse e che a Baia Terranova è sereno come sempre, per questo gli americani la chiamano “Banana Bay”. Così ci alziamo sopra le nubi e puntiamo verso il Mt. Melbourne. Usciti dalle nubi Bob si rilassa e ci fa volare per circa 20 minuti a bassissima quota sul ghiacciaio Campbell e dove questi si getta in mare. E’ un’esperienza esaltante, sotto di noi crepacci enormi e sculture di ghiaccio azzurro, percepisco l’amore che il nostro pilota prova per il volo…e finisco la scheda della mia macchina fotografica.
Atterriamo a Baia Terranova, siamo esausti ma felici che la giornata sia andata per il verso giusto, mi carico il pesante zaino pieno di rocce sulle spalle e mi giro per entrare in base, faccio appena in tempo a vedere Giles che indica una roccia nera in mano a Bob e gli chiede: “Cos’è quella?” e lui “ Come, non lo sai? E’ olivina!”.

Articolo gentilmente concesso dalla testata giornalistica MP News che pubblicherà, nel corso di tutta la Missione, un Reportage sull’Antartide a firma di Pier Paolo Giacomoni.

Al lavoro: i primi voli sulla Terra Vittoria Settentrionale

Tutto sommato bastano poche ore per sentirsi completamente a casa alla Base Mario Zucchelli. La struttura principale ha una forma a T ed in ogni ramo è collocata una sezione: zona notte, zona giorno (mensa, bar, lavanderia, aree ricreative…) e la zona laboratori. All’incrocio dei rami si trova la sala operativa, che è rialzata come la torre di controllo degli aeroporti. Da qui sono coordinate tutte le operazioni, dal volo degli elicotteri al movimento degli uomini su imbarcazioni e sul pack. Ci viene data una radio a testa, ogni spostamento al di fuori del perimetro della base deve essere comunicato alla sala operativa che deve avere costantemente coscienza della posizione e dei possibili rischi a cui ogni componente della spedizione può andare in contro. I ricercatori si sistemano nei laboratori, noi geologi abbiamo una grande stanza al secondo piano con tutto ciò che ci serve, carte, bussole, foto aeree e satellitari oltre a tutto l’occorrente per raccogliere campioni di roccia. Nel tardo pomeriggio viene indetta una riunione scientifica per definire gli obiettivi dei singoli gruppi di ricerca e organizzare il lavoro già dal giorno successivo.
Passiamo la giornata in base, imparando a conoscere la struttura e le persone che vi lavorano. Mi presentano gli elicotteristi Bob e Giles. Sono neozelandesi come la compagnia per cui lavorano la Helicopter New Zealand e ci aiuteranno a svolgere il nostro lavoro, portandoci dove affiorano le rocce che cerchiamo. Bob è un veterano, alla sua quindicesima spedizione in Antartide mentre Giles è alla sua prima esperienza a queste latitudini. Sono diversi per carattere ed aspetto fisico, il primo è sulla cinquantina, alto e longilineo con curati baffetti bianchi, indossa sempre un cappello da baseball della base americana di McMurdo, una camicia a grandi scacchi rossi e gli immancabili rayban a goccia che fanno molto top gun. Giles invece è molto più giovane, avrà una trentina di anni, biondiccio, rasato e vestito con abiti tecnici e occhiali da ghiacciaio avvolgenti e affusolati.
La mattina del giorno dopo alle 8.30 siamo in volo con Giles,allacciamo le cinture e indossiamo le cuffie che, oltre a proteggerci dal rumore, ci permettono di comunicare tra di noi grazie ad un interfono. Giles comunica alla Operativa: “November-Romeo, six on board, take off from Terranova to Shield Nunatak”. Solleva la leva del collettore, l’elicottero vibra e si solleva leggero, con una leggera spinta sul pedale destro lo fa ruotare in senso orario; cloche in avanti, il velivolo si inclina e inizia ad avanzare a pochi metri dal suolo. Corre, sfiora dapprima le rocce poi sorvola l’abbagliante distesa bianca del pack ghiacciato della Tethis Bay. Ci dirigiamo verso il Monte Melbourne a nord della base, la nostra destinazione è lo Shield Nunatak, uno “scoglio” di basalto scuro che si solleva dal ghiaccio come un dente cariato; è ciò che resta di un antico vulcano ormai quasi completamente eroso. Per raggiungerlo dobbiamo dapprima sorvolare il ghiacciaio Campbell, ammiro estasiato i profondi crepacci che iniziano ad apririsi a causa dell’innalzamento delle temperature estive. Indichiamo a Giles dove atterrare e lui appoggia dolcemente i pattini dell’elicottero su un pianoro innevato. Scendiamo, prendiamo i nostri zaini e la borsa di sopravvivenza per poi inginocchiarci a terra. Ci copriamo il volto e restiamo accucciati mentre l’elicottero decolla nuovamente sollevando neve e sabbia vulcanica. Questo tipo di operazione si chiama “Drop Off- Pick Up”, significa che il velivolo ci porta sul posto e poi se ne va per tornare quando chiamato via radio. Abbiamo con noi una borsa di sopravvivenza che contiene tenda, sacchi a pelo, attrezzatura per bivacchi alpini e viveri per tre persone per tre giorni. La borsa è necessaria perchè se il tempo dovesse cambiare l’elicottero potrebbe non riuscire a venire a recuperarci. Il pericolo più grande sono le nuvole basse perchè con il terreno innevato creano il fenomento del “white out”, cioè l’impossibilità di distinguere l’orizzonte o la terra da cielo. In queste condizioni l’elicotterista perde la capacità di percepire l’altezza dal suolo con effetti spesso disastrosi.
Ci mettiamo al lavoro, siamo quattro geologi e Jacopo, giornalista di Repubblica che segue la spedizione. Nelle due ore successive camminiamo per il nunatak e raccogliamo una decina di rocce vulcaniche che ci serviranno per il nostro studio. Poi il cielo diventa grigio, si alza una brezza gelida e dalla Sala Operativa chiamano il rientro. Non vogliamo certo sperimentare la borsa di sopravvivenza il primo giorno, così chiamiamo Giles che torna a recuperarci. L’uscita è durata solo mezza giornata ma torniamo felici; non dimenticheremo mai il nostro primo volo in elicottero in Antartide e siamo soddisfatti di avere iniziato a prendere confidenza con il territorio da subito. Nei giorni successivi avremo modo di restare di più all’esterno e l’Antartide non tarderà a mostrare il suo lato più affascinante e al contempo minaccioso.

Articolo gentilmente concesso dalla testata giornalistica MP News che pubblicherà, nel corso di tutta la Missione, un Reportage sull’Antartide a firma di Pier Paolo Giacomoni.

Verso un mondo di luce: l’arrivo a Baia Terra Nova

Stiamo pranzando all’albergo quando arriva il comunicato sulle condizioni meteo sopra la base di McMurdo dall’aviazione statunitense; la perturbazione sembra concederci una finestra priva di nuvole per qualche ora. Il rischio persiste ma dobbiamo tentare, si parte. Ci vestiamo con l’abbigliamento antartico, come richiede il protocollo di volo. Piedi e mani sono i punti più sensibili al freddo perciò indossiamo scarponi canadesi progettati per -40°C, portiamo con noi sottoguanti, guanti, berretta di lana e cappello, il tutto ovviamente in rosso, il colore che si distingue meglio sul ghiaccio. Di nuovo ci troviamo faccia a faccia con il militare neozelandese del precedente tentativo che questa volta, però, non ci ferma. Siamo trasportati su un vecchio pullman all’interno dell’aeroporto e poi su un airbus del tutto simile a quelli civili. Alle 21 decolliamo. Il volo durerà circa 6 ore. Ognuno cerca un modo per passare il tempo o magari per scacciare il pensiero che ancora una volta, giunti a metà strada, potremmo essere costretti a tornare in Nuova Zelanda.

Mi rilasso leggendo i diari di Scott, della prima fallimentare spedizione “Discovery” (1902-1903) verso il Polo. Partirono da Baia Terranova, la nostra destinazione. Mi addormento pensando che forse tra non molto vedrò io stesso quei luoghi. Mi sveglia la voce del pilota: “alle vostra sinistra potete ammirare il pack” dice. Mi affaccio al finestrino e sono accecato dalla luce. Siamo partiti che il sole era tramontato ma lo abbiamo “inseguito” ed ora, in piena notte è lì, alto in cielo, e si riflette sulla superficie di un infinito oceano di ghiaccio. Lo spettacolo è di quelli che tolgono il fiato. Scattando qualche foto mi accorgo che non è come lo immaginavo. La superficie ghiacciata non è piatta bensì percorsa da ondulazioni e increspature ampie chilometri che creano ombre lunghissime e strabilianti. Il pack è a volte interrotto da spaccature; dritte linee blu separano enormi iceberg piatti come in un quadro astratto. Presto iniziano a intravedersi le prime montagne ricoperte di neve, ghiacciai riempiono le valli e raramente riconosco piccoli lembi di roccia.

E’ impossibile rendersi conto delle distanze o delle dimensioni: piccole cime potrebbero essere alte 3000 metri e quello che sembra un normale ghiacciaio, essere largo 50 chilometri. La mente mi porta a immaginare che ciò che vedo doveva assomigliare all’aspetto delle nostre Alpi durante l’ultima glaciazione. Dal finestrino riconosco il Monte Melbourne, un vulcano attivo alto 2700 metri che sovrasta Baia Terranova. Cerco di riconoscere la base italiana; chiedo a chi è più esperto ma mi dicono essere coperta dalle nubi.

Rimango però esterrefatto alla vista dell’imponente fronte del ghiacciaio Drygalsky che si getta nel mare poco a Sud di Hells Gate, una baia denominata così da R. Scott per via dei forti venti che vi si incanalano. In breve tempo l’aereo comincia la sua discesa verso la base di McMurdo. Quello della base americana è un vero e proprio aeroporto che rispetta tutte le norme internazionali dell’aviazione civile ma, invece di essere in asfalto, la pista è ricavata sulla superficie ghiacciata della Ross Shelf, un’aerea enorme costituita da una serie di ghiacciai terrestri che confluiscono in mare. Grazie a ciò gli americani sono in grado di mantenere una pista per tutto l’anno mentre quella italiana, costruita sul pack, in estate diventa inutilizzabile.

L’aereo atterra alzando una nuvola di neve e scendiamo a uno a uno dalla scaletta. E’ un momento indimenticabile, metto il piede sul ghiaccio, una folata di vento ci colpisce il volto e respiriamo a pieni polmoni l’aria a -20°C; ci sovrasta con i suoi 3300 metri di altezza il Monte Erebus. Siamo ordinatamente stipati in un container riscaldato in attesa dei voli verso la base italiana. Sono fortunato, parto quasi subito insieme ai dieci francesi su un twin otter; il piccolo aereo ha due motori a elica e prende agilmente la via della pista, scivolando con i pattini sulla superficie ghiacciata. In un’ora e mezza siamo a Baia Terranova, nel frattempo il cielo si è riempito di nubi, per fortuna alla base Mario Zucchelli c’è un bellissimo sole. Il twin otter atterra sul mare ghiacciato della Tethis Bay. Ad attenderlo una cisterna per il carburante e il gruppo che deve prenderlo per andare a McMurdo e imbarcarsi per fare il viaggio inverso e tornare finalmente a casa.

Molti sono veterani, chi si conosce si abbraccia mentre i nuovi sono accolti calorosamente con una forte stretta di mano ed un sorriso. Saliamo su una jeep e in pochi minuti arriviamo alla base passando per le cisterne del carburante avio, davanti ai magazzini e infine all’edificio principale dove si trova la sala operativa, i moduli abitativi e quelli con i laboratori e gli uffici. Sono le 4 del mattino, tutti dormono, il sole è caldo, qui il clima è molto più mite rispetto che alla base americana. Entrati in base ci danno delle comode pantofole e ci portano ai rispettivi alloggi, poggio la borsa e seguo un irresistibile odore di cornetti fino alla mensa, dove il cuoco napoletano è intento a preparare la colazione. Ci rilassiamo, anche i francesi sono stupiti dall’ospitalità: qui, nel luogo più inospitale della Terra, esiste un lembo di Bel Paese. La stanchezza prende il sopravvento, mi corico in branda, non mi sembra vero, sono in Antartide. E l’avventura deve ancora incominciare …

Articolo gentilmente concesso dalla testata giornalistica MP Newsche pubblicherà, nel corso di tutta la Missione, un Reportage sull’Antartide a firma di Pier Paolo Giacomoni.

Un mondo di ghiaccio – An Icy World

ISLANDA, Jokulsarlon, Luglio 2009

Tak fyrir, dicono in Islanda, “grazie mille” sarebbe la traduzione più corretta in italiano. Per questo scatto devo davvero essere grato all’Islanda, alla sua atmosfera e all’incredibile dote che ha questa terra lontana di stupire continuamente.

Questa foto è stata fatta a Jokulsarlon, la “Baia degli Iceberg”. Un posto splendido, meta imprescindibile per ogni viaggiatore che visiti l’Islanda per la prima volta. Jokulsarlon è una baia di acqua salmastra nella quale una delle più grandi lingue glaciali dell’enorme Vatnajokull “sfocia” nell’Oceano Atlantico. Qui i ghiacci cominciano lentamente a sciogliersi ed a frammentarsi in centinaia di iceberg, grandi a volte come palazzi. Gli iceberg iniziano poi a fluire verso il mare, trasportati dalla corrente e dalle maree.

In Islanda il tempo è spesso piovoso, il cielo grigio e, soprattutto nel sud del paese, dove si trova Jokulsarlon, flagellato da terribili bufere. Perciò ogni viaggiatore spera di arrivare a vedere la baia in un giorno fortunato di bel tempo. Nel Luglio del 2009 avevo dormito in tenda su una morena a pochi metri dall’acqua della baia. Rimasi sveglio a lungo, il sole di mezzanotte non mi faceva prendere sonno, ne approfittai per fare due passi e scattare qualche foto alle foche che nuotavano tra i blocchi di ghiaccio. Il silenzio era interrotto solo dalle esplosioni del ghiaccio che si spezza e dal riassestarsi degli enormi iceberg nella loro eterna ricerca di un nuovo baricentro.

Il giorno seguente mi svegliai presto, un po’ abbattuto perchè l’accampamento era avvolto nella nebbia, quasi non si scorgeva la baia. Presi comunque la macchina fotografica e mi diressi verso la riva e qui l’Islanda mi stupì nuovamente. La nebbia si diradò, evidenziando solo le punte di quelle che sembravano guglie di una cattedrale gotica. Qualche raggio di luce evidenziò i diversi colori del ghiaccio, blu quello più compatto e bianco quello più ricco in bolle d’aria. Alcuni blocchi portavano con se una gran quantità di sedimenti, introducendo delle note nere al quadro naturale. Solo, con le zampette sul ghiaccio, un gabbiano reale si guardava intorno….TAKK FYRIR Islanda, perchè non finisci mai di stupire!

 

Running on the edge

Running on the edge, Marocco, Gennaio 2011

La prima impressione del deserto ti toglie il fiato. Lo scorso Gennaio ero in Marocco, un viaggio di 10 giorni da Fez a Marrakech passando per la catena dell’Atlante con 3 notti nel deserto. La notte dell’ultimo dell’anno mi trovavo all’Erg Chebbi, un gruppo di dune fossili a forma di fagiolo al confine con l’Algeria. Montate le tende e avviato i preparativi per i festeggiamenti, ho intrapreso una camminatata di un paio d’ore verso la cima della duna più alta.

La prima impressione del deserto ti fa sentire davvero piccolo. La forma delle dune, il sole del tramonto che ne disegna i bordi taglienti, là dove si incontrano la luce e l’ombra…una sensazione quasi metafisica. Ho cercato di isolarmi, di inquadrare e fotografare la “duna perfetta”. Non era facile, troppe persone, tra cui uno scalmanato gruppo di motociclisti tedeschi, si erano riunite per l’ultimo dell’anno. Tuttavia, giunto in cima alla duna, mi accorgo che alcuni ragazzini del posto si divertivano a correre lungo il bordo della duna, per poi tuffarsi rotolando nella sabbia. E’ lo scatto che cercavo…

Ciao

ENGLISH VERSION

The first impression of the desert takes your breath away. Last January I was in Morocco, a 10 days journey from Fez to Marrakech through the Atlas belt and three nights sleeping in the desert with tends. New Year’s Eve I was in the Erg Chebbi, a group of kidney-shaped fossil dunes close the Algerian border. Prepared the camp, I started a walk of few hours to the top of the highest dune.

The first impression of the desert makes you feel really small. The shape of the dunes, the setting sun that draws sharp edges where they meet the light and shadow… it is almost metaphysical. I tried to isolate myself, to find and photograph the “perfect dune”. It was not easy, too many people, including a noisy group of German motorcyclists, had gathered for the last day of year. However, reached the top of the dune, I saw that some local kids had fun running along the edge of the dune, and then dive, rolling into the sand. That was the shot I was looking for…

Hello

Ciao, mi presento

Il mio ritratto a Jokullsarlon, Islanda meridionale.

Ciao, mi presento. Mi chiamo Pier Paolo sono geologo e ricercatore in vulcanologia, il mio seppur precario mestiere e la mia passione mi portano a viaggiare in luoghi spesso remoti, dove è ancora possibile meravigliarsi delle bellezze del mondo e della incredibile varietà dell’umanità che lo popola. Credo nel “viaggiare leggeri”, dove l’aggettivo si riferisce non solo al portare con se il minimo indispensabile, ma anche al camminare con passo rispettoso della natura e delle culture che si incontrano. Con me porto sempre la mia macchina fotografica, un taccuino e la voglia di “vedere con occhi nuovi” tutto ciò che mi si presenta. Questo blog sarà un fotodiario di esperienze, di emozioni. Ogni post avrà come protagonista una immagine e la storia che si porta con se; con la speranza di instillare nuove curiosità e una rinnovata sensibilità verso la nostra splendida e fragile Terra. Buon Viaggio!

ENGLISH VERSION

Hello, I introduce myself. My name is Pier Paolo, geologist and researcher in volcanology, my job and my passion lead me to travel often to remote places where is possible to admire the beauty of the world and the amazing diversity of humanity that populates it. I believe in the “travel light”, where the adjective refers not only to bring few things, but also to walk with respectful steps of nature and cultures meet. I always carry with me my camera, a notebook and the desire to “see with new eyes” anything that presents in front of me. This blog is a scrapbook of experiences and emotions. Each post will present a picture and a related story, hoping to instill new curiosity and a renewed sensitivity to our beautiful and fragile earth.

Buon Viaggio!